PROMETEO INCATENATO
Il nome "Prometeo" deriva dal prefisso greco προ- /pro-/ "prima di, avanti" e dalla radice μηθεύς /mētheus/, da μῆτις /mētis/ "pensiero, consiglio, saggezza". Messi insieme, il significato letterale è “previsione”, cioè "colui che pensa in anticipo".
Nel mito, Prometeo ha un gemello oscuro, Epimeteo (gr. ἐπιμηθεύς /Epimētheús/), che significa "ripensamento" (dal prefisso gr. ἐπι- /epi-/ “dopo di, sopra”, con la stessa radice), cioè "colui che ha la saggezza tardiva". Non sorprende che Epimeteo sia il Titano che sposa Pandora e accetta incautamente il suo fatidico vaso. Mentre Epimeteo cade nel rimpianto, Prometeo anticipa e pianifica.
Il nome Prometeo racchiude il tema centrale della tragedia: rappresenta la capacità di guardare oltre il presente, il dono della lungimiranza. Le catene possono imprigionare il suo corpo, ma il suo nome rivela che la sua mente è sempre un passo avanti alla tirannia.
Il Prometeo incatenato si apre con un colpo di martello. Su un palcoscenico spoglio, ai confini del mondo – la Scizia, antico sinonimo di terra ignota – Kratos (Forza) e Bia (Violenza) ordinano a Efesto di inchiodare un dio a una roccia. Il crimine: Prometeo ha rubato il fuoco per donarlo ai mortali, offrendo loro il seme della technē – l'arte, la conoscenza, la capacità di strappare il domani al caos. Il nuovo regime di Zeus lo considera tradimento; Prometeo lo chiama pietà. Fin dal primo clangore, la tragedia mette in scena due futuri inconciliabili: uno governato dalla paura e dalla forza bruta, l’altro sostenuto da intelligenza e compassione ostinata.
L'austerità del dramma è ingannevole. Accade poco nel senso moderno della narrazione: Prometeo è immobile; il suo corpo diventa una tesi inchiodata al basalto. I personaggi che lo visitano appaiono come pensieri in una mente che si rifiuta di cedere: le Oceanine, coro in lutto; Oceano, il diplomatico cauto; Io, la vagabonda tormentata; Ermes, incarnazione esecutiva della tirannia. Ogni dialogo scolpisce un nuovo aspetto del paradosso centrale: come può l'immobilità generare la massima libertà di parola nella tragedia greca? Qui, l'immobilità è un atto morale. Prometeo perde tutto tranne ciò che Zeus non può confiscargli: un futuro che egli prevede e non è disposto a barattare.

Dirck van Baburen, Vulcano incatena Prometeo,
olio su tela, 201x182 cm., 1623.
Rijksmuseum, Amsterdam.
Il suo nome rivela il suo vero potere: la lungimiranza. Prometeo insiste sul fatto che gli esseri umani, prima del suo intervento, “non sapevano nulla”: non conoscevano le stagioni, non costruivano case, non leggevano i presagi del cielo né sapevano navigare seguendo le stelle. Il fuoco è solo lo strumento; il vero contrabbando è il know-how. Con il dono del fuoco arrivano aritmetica, scrittura, agricoltura, medicina – in altre parole, la diffusione del potere attraverso la conoscenza. Gli dei, in questa tragedia, non temono il calore: temono la storia. Il fuoco permette agli umani di riscrivere il proprio destino.
Il nuovo ordine di Zeus è giovane, insicuro, punitivo. La politica del dramma è tutt'altro che sottile: si apre con Forza e Violenza che costringono un artigiano a compiere un atto che disprezza. Efesto si lamenta: le sue mani devono insegnare la crudeltà, perché solo loro possono realizzarla. È un'intuizione inquietante: la tecnologia è neutrale solo nei manuali.
Nella realtà – e nella tragedia – la tecnologia serve qualsiasi scopo la impugni. Gli strumenti di Efesto imprigionano Prometeo; il fuoco di Prometeo emancipa l’umanità. La vera domanda è: chi possiede gli strumenti? L'ingresso in scena di Io, metà donna e metà giovenca, punzecchiata dal tafano della gelosia divina di Era, trasforma la filosofia in pathos. La sua sofferenza attraversa continenti, e la sua discendenza culminerà in Eracle, il liberatore di Prometeo.
La vittima diventa l’antenata del salvatore: il boomerang preferito dalla tragedia. La scena di Io rende universale il prezzo delle lotte di potere: sono i mortali e i semidei a pagare il conto dell’ego degli dei. Tuttavia, nel dialogo intriso di profezie tra Io e Prometeo, l’opera intreccia la speranza alla sofferenza: il tempo è lungo, l’ingiustizia non è eterna, e anche il regno di Zeus ha una scadenza.
L’ultima visita di Ermes è un ritratto minuzioso della minaccia burocratica. Non discute, ma minaccia. La logica dell’autocrazia è l’efficienza: obbedienza immediata, nessuna domanda. Ma Prometeo contratta con l’unico bene che i tiranni non possono falsificare: la conoscenza del futuro. Egli custodisce il segreto che, se ignorato, distruggerà Zeus. Questo contro-ricatto è il colpo di genio dell’opera: la forza assoluta incontra l’intelligenza assoluta, e il risultato è uno stallo. La rupe crolla, Prometeo precipita, e il sipario cala su una sentenza sospesa. Se questa tragedia fa parte di una trilogia (come molti studiosi credono), la risoluzione spetta a un altro giorno. Eppure, l’unica opera che possediamo è compiuta in un senso più profondo: rifiuta la catarsi fino a quando la giustizia non sarà maturata.
L’autore è Eschilo? La tradizione lo afferma, anche se alcune anomalie stilistiche fanno esitare gli studiosi. La questione è interessante ma non decisiva per il lettore moderno. L’architettura dell’opera – le odi corali colme di compassione, i duelli retorici, la scenografia verticale che trasforma il cielo in prigione e promessa – è profondamente tragica. E la sua intelligenza morale è inequivocabilmente greca: l’arroganza genera nemesi, ma raramente nel momento più comodo per lo spettatore.
Perché Prometeo incatenato ci parla ancora oggi? Perché drammatizza tre questioni eternamente umane:
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L’etica dell’innovazione. Fornire strumenti agli altri è un atto di misericordia o di tradimento? La tragedia risponde: entrambi, a seconda di chi lo giudica.
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La natura della resistenza. Il potere presume che la sottomissione sia naturale; la coscienza presume lo sia la dignità. Prometeo è il patrono del “No” che prepara il terreno per un “Sì” più grande.
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Il tempo contro la forza. Oggi prevale la forza; alla lunga vince la lungimiranza. La tragedia è teatro della pazienza.
Alla fine, Prometeo incatenato non è un elogio alla sofferenza, ma una scommessa: la conoscenza, una volta trasmessa, non può essere revocata. Si può inchiodare un dio a una roccia, ma non si può disinsegnare il fuoco. Per questo la tempesta finale non è una sconfitta, ma un temporale che passa sopra una fiamma pilota decisa a non spegnersi.
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