GIANNIZZERI
Il termine “giannìzzeri”, sost. m. pl. (sing. “giannìzzero”), è entrato nella lingua italiana attraverso il turco yeniçeri, che significa letteralmente “soldato nuovo” (yeni “nuovo”, çeri “soldato”). La doppia “z” restituisce bene la pronuncia originale e racconta, già da sola, l’eco delle lunghe campagne tra Oriente e Occidente. Dalla fine del Medioevo in poi, i giannizzeri non furono solo un corpo militare: furono uno dei simboli più potenti e temuti dell’Impero ottomano.
Il corpo dei giannizzeri nacque sotto il sultano Murad I, nella seconda metà del XIV secolo. Era una fanteria d’élite — disciplinata, stipendiata direttamente dallo Stato, addestrata a usare le armi da fuoco in un’epoca in cui la cavalleria dominava ancora i campi di battaglia. Questo li rese per decenni la punta di diamante delle armate ottomane e una delle chiavi della loro formidabile espansione.
A differenza degli eserciti feudali, i giannizzeri non erano mercenari né nobili. Venivano reclutati attraverso il devşirme, un sistema di prelievo forzato di ragazzi cristiani dai Balcani e dall’Anatolia europea: bambini sottratti alle famiglie, convertiti all’Islam, educati rigorosamente e destinati a servire lo Stato come soldati o funzionari. L’idea era semplice e crudele: costruire un’élite che non dovesse nulla a nessuno, se non al sultano.
I giannizzeri erano organizzati in un corpo detto ocak (“focolare”) e suddivisi in compagnie (orta). Il comandante supremo era l’Ağa dei giannizzeri. Curiosamente, la vita del corpo ruotava attorno a un simbolo quotidiano: il calderone della mensa comune. Quando i soldati lo capovolgevano in segno di protesta, era chiaro a tutti che stava per iniziare una rivolta.
Parata dei giannizzeri
davanti al sultano Osman II (1618–1622)
e al visir Davud Pascià.
Miniatura ottomana, ca. 1620.
Los Angeles County Museum of Art.
Sul piano spirituale, erano legati all’ordine sufi Bektashi, che forniva loro rituali, identità e coesione. Vivevano inizialmente in caserme, celibi, vincolati a un codice severo: niente matrimonio, niente commercio, niente proprietà. Ma come spesso accade agli apparati di potere, con il tempo queste regole si allentarono: nacquero famiglie, botteghe, carriere parallele. La disciplina si ammorbidì, e i privilegi crebbero.
Per secoli, i giannizzeri furono strumento di conquista e stabilità. Combatterono a Varna (1444), a Mohács (1526) e in prima linea nell’assedio di Costantinopoli nel 1453. La loro presenza sul campo di battaglia era tanto temuta quanto riconosciuta. Erano tra i primi a impiegare moschetti in modo sistematico, e la loro banda militare mehter — tamburi, trombe e zurnà a tutto volume — serviva a incutere timore e a coordinare la marcia. Da quella musica “alla turca” presero ispirazione anche compositori europei come Wolfgang Amadeus Mozart e Ludwig van Beethoven.
Con il tempo, però, i giannizzeri divennero più di un corpo militare: una vera e propria forza politica a Istanbul. Erano in grado di deporre o insediare sultani, bloccare riforme, influenzare la vita di corte. Quando una guardia pretoriana si trasforma in lobby, l’equilibrio del potere diventa delicato.
I privilegi economici crescevano: stipendi regolari, bonus di guerra, pensioni e giurisdizione interna. La loro influenza aumentava proporzionalmente al loro numero, e la capacità militare cominciava a declinare. Quello che era nato come un corpo di “soldati nuovi” diventò una corporazione conservatrice, ostile a ogni tentativo di modernizzazione.
Il declino cominciò dopo la battaglia di Vienna del 1683, quando la supremazia militare ottomana subì un duro colpo. I sultani provarono più volte a riformare l’esercito introducendo modelli europei, ma i giannizzeri si opposero con forza, difendendo i propri privilegi.
La resa dei conti arrivò nel 1826 con il sultano Mahmud II. Durante quello che venne chiamato l’“Evento Fausto” (Vaka-i Hayriye), l’esercito fedele al sultano circondò le caserme dei giannizzeri e le bombardò. Fu la fine brutale ma definitiva di un’istituzione che, per quasi cinque secoli, aveva incarnato la potenza militare ottomana.
Oggi “giannizzero” in italiano non indica più solo un soldato ottomano. È diventato un termine figurato per descrivere un seguace inflessibile, un difensore fanatico di una causa, di un leader o di un’ideologia. Lo si usa spesso in tono ironico o spregiativo — soprattutto in politica, dove i “giannizzeri” non mancano mai.
La parabola dei giannizzeri è affascinante perché racconta una dinamica universale: un’istituzione nata per innovare, diventata con il tempo un ostacolo al cambiamento. Dal XIV al XIX secolo, i giannizzeri furono allo stesso tempo motore e zavorra dell’Impero ottomano: moderni all’inizio, anacronistici alla fine. La loro storia insegna che la forza di un’istituzione non è mai eterna — e che chi si oppone al cambiamento, prima o poi, finisce travolto da esso.
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